Oggi, venerdì
La verità sta emergendo. E'
l'unica piccola soddisfazione
di una giornata tristissima
di Giacomo Papi -
diario.it
Non so, mentre inizio a scrivere, perché lo sto facendo.
Se le parole faticheranno a uscire o usciranno tutte insieme.
Ho addosso una specie di stordimento e rabbia. Il pensiero della
sua bellissima famiglia, dei suoi figli meravigliosi è
così pesante, in queste ore, da essere quasi fisico.
Pesa il dubbio di avere contribuito in qualche modo a oliare
il suo destino, in cui Enzo tanto credeva.
Nelle ultime ore, Croce rossa e Ministero
degli Esteri riconoscono che nella sostanza i fatti sono andati
come noi abbiamo scritto nell'inchiesta uscita oggi. Enzo Baldoni
e Ghareeb vengono attaccati mentre aprono un convoglio di Croce
e Mezzaluna rossa che da Najaf, sta tornando a Baghdad, via
Kufa. Non viaggiano soli. Non hanno commesso inutili imprudenza.
La verità era il nostro unico dovere
nei loro confronti. Avere capito e scritto la verità
è l'unico pensiero che in questi momenti ci conforta.
Tutti coloro che hanno accreditato la tesi di Enzo come di uno
sprovveduto kamikaze del giornalismo, un Rambo naif, dovranno
ricredersi e ammettere che si trattava di una brava persona
e di un giornalista bravissimo. La sua fine è quella
di una vita bella.
l'Unita' - 27.08.2004
Un ficcanaso dalla parte dei vinti
di Marina Mastroluca
Un ficcanaso con lo sguardo innocente. Non
perché sia lui, Enzo Baldoni, a raccontarsi così
sul suo diario on line, quel «Bloghdad» che lasciava
introdurre da Graham Greene per spiegare che razza di cronache
i suoi lettori si sarebbero trovati davanti: «Ho scritto
quello che ho visto, non ho preso parte all’azione - anche
un’opinione è una sorta di azione». Partito
per Baghdad per rispondere alla «solita vocina tra la
panza e la coratella», a leggerlo sulle sue pagine Baldoni
è l’esatto contrario del rambo assetato di gloria
e avventura che qualcuno in questi giorni ha cercato di contrabbandare,
liquidandolo come un ostaggio di serie B, uno «che se
l’è andata a cercare». Piuttosto il contrario:
in Iraq Enzo sembra entrare in punta di piedi, per cogliere
il lato meno visto, meno logorato dallo stillicidio dell’informazione
quotidiana che si ferma più spesso alla cronaca dei fatti,
al sangue, agli spari, e non ha tempo per il resto. Baldoni
spedisce frammenti d’umanità, immagini, l’altra
faccia della guerra, con la preoccupazione di sbirciare nel
baratro e riportare a casa la pelle.
Pacifista, contrario alla guerra certo. Un
collezionista di stati d’animo. Le parole sono ancora
le sue. Uno che non sa stare fermo, che non riesce a stare in
finestra, dicono di lui gli altri, quelli che lo hanno conosciuto.
«Aveva lo sguardo di chi vuol capire da sé, senza
essere indottrinato da nessun altro», è il ricordo
di Stefania Rumor, caporedattore di Linus, la rivista con la
quale Enzo Baldoni collaborava da una ventina d’anni,
traducendo le strisce di Doonesbury e spedendo di quando in
quando i suoi reportage dai punti più disparati della
terra. Il Chiapas, il Messico, Timor Est, la Birmania, la Colombia,
luoghi dove si imbatte in figure quasi leggendarie, il subcomandante
Marcos, il leader timorese Xanana Gusmao. «Incontrare
rivoluzionari in giro per il mondo - scriveva sul suo blog con
una punta d’ironia - diventa una droga». I suoi
reportage escono su Diario, Specchio, Repubblica.
Cinquantasei anni portati con leggerezza,
umbro di nascita e milanese d’adozione, una moglie e due
figli di 21 e 24 anni, quei ragazzi apparsi in tv a chiedere
con gentilezza la sua liberazione, il sorriso sulle labbra così
simile al suo. Sul suo sito internet Baldoni elenca la sua variegata
carriera di collezionista di situazioni, uno che ha fatto «il
muratore in Belgio, lo scaricatore alle Halles, il fotografo
di nera a Sesto San Giovanni, il professore di ginnastica, l’interprete
e il tecnico di laboratorio». Al giornalismo Enzo Baldoni
ci arriva per caso, non è quello il suo mestiere ufficiale,
che lo vuole pubblicitario per uno studio, «Le Balene»
fondato in proprio nonostante lo avessero chiesto «numerose
e note agenzie». «Il più grosso creativo
d’Italia», si definiva, scherzando sulla sua statura
d’omone grande e grosso e sulla sua pancia. Creativo lo
era davvero, però, le sue idee piacevano, come quella
di mostrare l’efficacia di un rasoio per pelli sensibili
mettendolo alla prova su palloncini coperti di schiuma da barba.
Un lavoro che faceva con passione, ma che non era tutto. Dice
il suo socio Marco Andolfato, Enzo «era un irregolare
anche in questo, sfuggiva a qualsiasi inquadratura».
Freelance per caso, si potrebbe dire, o per
la necessità di scrivere, di sentire i tasti sotto le
dita e tramutare una cronaca di guerra in una realtà
comprensibile, perché fatta di uomini a tre dimensioni.
Di questo suo bisogno parlava sul suo blog, più che dell’adrenalina
da pompare nelle vene per sentirsi vivo, descrivendosi un giornalista
«sempliciotto» al confronto con gli inviati veri,
quelli che lavorano da professionisti e raccontano la guerra
che si vede sui Tg. Un reporter d’assalto in costume da
bagno rosso nella piscina deserta dell’hotel Palestine
- paradossalmente specchio della guerra che imperversa fuori
- dove un cameriere gli offre un mazzolino di fiori quasi per
compensarlo di tanta solitudine. Un fotografo che affronta il
reparto grandi ustionati nell’ospedale della Croce rossa
di Baghdad, per ritrovarsi con le lacrime agli occhi davanti
ad una bimba che gli ricorda sua figlia Gabriella da piccina.
Uno che senza sapere esattamente come, anche qui quasi per caso,
perché laggiù qualcuno chiede aiuto, si ritrova
in un convoglio per Najaf dopo aver domandato al suo autista-interprete,
quel Ghareen che ha condiviso la sua sorte, se per caso non
fosse matto a proporgli un’impresa tanto assurda.
Un camion di aiuti, più che uno scoop,
questo l’obiettivo del viaggio, come in futuro sarebbero
stati i piedi di Mohammed, la protesi promessa ad un ragazzo
ferito da una cannonata mentre portava la moglie a partorire.
E la curiosità di capire, anche Al Sadr - «sarebbe
bello riuscire a intervistarlo» - e i suoi uomini pronti
a morire. «Qualcuno pensa che io sia un mezzo rambo che
ama provare emozioni forti, vedere la gente morire e respirare
l’odore della guerra come Benjamin Willard l’odore
del napalm la mattina in “Apocalipse now” - aveva
detto una volta -. Invece sono lontano mille miglia da questa
mentalità, molto sempolicemnte sono curioso. Voglio capire
che cosa spinge persone normalissime ad imbracciare un mitra».
Era questo il succo della storia, pensare di avere davanti comunque
esseri umani. «Benevolo verso tutti e verso tutto»,
anche troppo buono, lo descrivono. È lui a sventolare
la bandiera della Croce rossa nei vicoli di Najaf per aprire
la strada, camminando a piedi davanti a tutti, al convoglio
bloccato dai combattimenti, come raccontano i colleghi.
Quel suo sorriso aperto sembrava potesse
essere il suo passepartout anche con i suoi sequestratori. Gli
era servito in Colombia, quando rapito dalle Farc riuscì
a intervistare un capo della guerriglia e a ritornare a casa.
Allora riuscì a far breccia nell’umanità
dei guerriglieri che aveva davanti, uomini anche loro. Stavolta
non è andata così.
l'Unita' - 28.08.2004
"Una congiura del silenzio sulla
tragedia di Enzo"
intervista a Enrico Deaglio, direttore
di Diario
«La tragedia di Enzo Baldoni è
costellata da tanti, troppi silenzi. Silenzi sospetti. Non so
se è giusto parlare di una congiura del silenzio. Quel
che so è che la verità sulla morte di Enzo è
tutta da ricercare». A parlare è Enrico Deaglio,
direttore di Diario, il settimanale con cui Enzo Baldoni collaborava.
«La morte di Enzo - sottolinea Deaglio - racconta di un
Iraq in balìa di bande armate; un Paese nel quale non
esiste un controllo del territorio. Un Paese-trappola dal quale
dobbiamo andarcene».
Dalla Croce Rossa ai servizi di intelligence
italiani. C’è chi sostiene che Enzo Baldoni è
stato abbandonato al suo tragico destino.
«Enzo Baldoni è stato sequestrato, rapito nell’occasione
di un attacco militare alla sua macchina che apriva il convoglio
della Croce Rossa italiana che tornava da Najaf a Baghdad nel
primo pomeriggio di venerdì 20 agosto. La macchina è
stata assaltata, l’autista - Ghareeb, un giordano palestinese
- è stato ucciso, tra l’altro in maniera barbara.
Subito dietro viaggiava il resto del convoglio della Croce Rossa,
cioè un camion, altre macchine, un’ambulanza che
sono passati velocissimamente, proprio a tavoletta. Qui non
si può fare alcun addebito di omissione di soccorso,
perché era impossibile fermarsi. Chi si fermava lì
era inevitabilmente esposto ad altre sparatorie. Le “stranezze”
sospette in questa vicenda sono altre...».
Quali?
«La cosa brutta è che di tutto ciò non è
stata data notizia. Tutto questo convoglio appena arriva a Baghdad
dà notizia, lancia l’allarme, dice siamo stati
attaccati e abbiamo avuto un morto e un disperso. Lo dice alle
autorità, lo dice all’ambasciata, lo dice a tutti.
E nessuno di questi lo rende noto. Per quanto riguarda Baldoni,
si va avanti per cinque giorni a dire “chi sa dove sarà
Baldoni”, sarà andato per i fatti suoi, magari
alla ricerca di uno scoop, mentre loro lo sanno che Enzo è
stato rapito in questa circostanza e non lo dicono».
Qual è l’ipotesi che si
sente di azzardare su questo lungo silenzio?
«Ci sono varie ipotesi e adesso ci stiamo lavorando. Prima
di tutto, il problema è di capire perché è
stato attaccato questo convoglio. In secondo luogo, occorre
capire se all’interno di questo convoglio cercavano qualcuno
in specifico, perché, per esempio, l’uccisione
così brutale e accanita di questo Ghareeb è inusuale
per tutte le storie di rapimenti in Iraq, e quindi chi era realmente
questo Ghareeb. In terzo luogo, come al solito essendo in Italia
ci possono essere delle spiegazioni minime, di quelle impiegatizie:
siccome il convoglio non è autorizzato, forse è
meglio non farlo sapere, per evitare dei guai...Un’altra
ipotesi è che dietro questi silenzi c’è
qualcosa di più, di più grave e inquietante, che
investe la figura di un “cane sciolto”, e per questo
meno controllabile, quale era Baldoni. Sta di fatto che tutte
le persone che hanno visto, che sono state testimoni, hanno
avuto abbastanza una consegna del silenzio, nel senso che nessuno
di questi ha parlato, all’ospedale della Croce Rossa non
si poteva entrare, non rispondevano...».
Si può sostenere che attorno
alla vicenda, finita in tragedia, di Enzo Baldoni vi sia stata
una congiura del silenzio?
«C’è stato il silenzio. Grave. Assordante.
Sospetto. Se questo silenzio sia stato una congiura al momento
francamente non lo so. Perché potrebbero essere una serie
di piccoli interessi che hanno provocato questo silenzio; però
qualcosa di più penso che ci sia stato. Il sequestro
è avvenuto il venerdì pomeriggio del 20 agosto,
se uno dà la notizia, come è stata data ai canali
diplomatici, all’ambasciata, la stampa doveva esserne
informata e i telegiornali della sera avrebbero aperto con la
notizia: attaccato un convoglio della Croce Rossa italiana,
un morto e un disperso. Questa è la notizia. E il disperso
è un giornalista free-lance italiano che era assieme
al convoglio. Questa cosa qui non è stata voluta. Non
so se si possa parlare di una vera e propria congiura, ma certo
si tratta di qualcosa di molto grave. Soprattutto è grave
perché si è lasciato che nei numerosi giorni seguenti
venissero alimentate tutte le ipotesi di dove fosse Baldoni,
sarà qua, sarà là, sarà alla ricerca
di uno scoop, era da solo...mentre la verità la sapevano
già, sapevano che il convoglio era stato attaccato e
che Enzo era stato rapito».
L’uccisione di Enzo Baldoni riattualizza, se ce ne
era bisogno, la tragedia irachena....
«Dal “pantano” iracheno occorre venirsene
via. È la verità. Perché da questa storia
si scopre che tutto l’Iraq è diverso da come ci
viene dipinto, Da questa storia si scopre che non esistono strade
sicure, che non c’è alcun controllo del territorio,
che ci sono bande di predoni e di gruppi terroristi che dominano
tutte le parti, che non si riesce a garantire una sicurezza
minima. Io sono sempre stato contrario a mandare delle truppe
lì, adesso a maggiore ragione mi chiedo cosa ci stanno
a fare, se non danno neanche le notizie di quello che succede.
Quando si dice “siamo in contatto con tutti”, “abbiamo
attivato i nostri canali”, i servizi.... In realtà
noi siamo molto, molto deboli in qualsiasi azione di intelligence,
in qualsiasi iniziativa di controllo del territorio. Questa
è l’amara verità. E la ricostruzione della
morte di Enzo Baldoni testimonia questo. Ne tengano tutti conto».
Se dovesse raccontare ai lettori de
l’Unità chi era Enzo Baldoni, cosa direbbe?
«Direi questo: prendi un uomo grande e grosso, di 56 anni,
molto allegro, molto socievole, che quando parla con una persona
si vede che quella persona lo interessa veramente. Enzo era
una persona positiva, che voleva fare delle cose positive nella
vita. Vuole arrivare, vuole vedere, vuole raccontare. Una curiosità
a cui abbinava uno straordinario talento di raccontatore di
storie e di persone. Questo era e resta per noi Enzo Baldoni:
una bella persona».